In una barca tutto il Mediterraneo

La grande sconfitta dell’uomo sta nella scoperta nella finitezza della vita. Il ritrovarsi segmento temporale che non sappiamo quanto coinciderà con la retta infinita dell’eternità. Un Beppe Labianca affondato in una barca osserva il mondo marino imprigionato in una stanza, l’infinito è diventato un cubo, tutto il pensiero si è chiuso nella nostra scatola cranica. Come il racconto tramandatoci dalle confessioni di Sant’Agostino, quando si trovava da bambino a far entrare in una buca appena scavata tutto il Mediterraneo.
Altri individui, soli, percorrono con lo sguardo perso nel tramonto. Di fronte a spazi enormi, come a denunciare l’infinito Beppe ha fame d’aria e di immensità. Lo denunciano gli spazi raffiguranti e i supporti fuori misura che utilizza. Le creature sono raffigurate sotto un tetto di stelle o un cielo senza lune, ma all’aperto, mai al chiuso di un condominio o di uno studio. Tutto gira intorno all’io dell’autore. Dopo la caduta dei sogni, continua dunque l’etica di questo pittore innamorato dell’Egeo e dei suoi miti il quale ha
abbandonato le rappresentazioni corali e si rivolge al destino del singolo, a soggetti isolati che si perdono nella riflessione infinita, alle domande esistenziali.
Pittura e riflessione teorica si fondono, ma una grande scoperta che l’arte è comunicazione di sentimenti e insieme riflessione sul senso del nostro viaggio.

Raffaele Nigro.

Rebus

Gli occhi del ragazzo sono i miei di 40 anni e più anni fa, il barbiere è quello che aveva la sua bottega sul marciapiede del primo binario della stazione centrale di Bari. E che mio padre faceva venire a casa per tagliarmi i capelli. Dovevano rigorosamente essere sempre corti e in ordine, soprattutto prima dei nostri tre quattro viaggi all’anno in Calabria per trovare nonni e parenti- viaggi ancora in Littorina, che partiva all’una ed un quarto su un binario tronco senza pensilina- sotto la canicola d’estate, sotto la pioggia d’inverno per le feste comandate, insieme a tanti altri emigranti che si accalcavano e si muovevano velocemente per conquistare i posti a sedere. Capelli in ordine, e viaggio nella famiglia patriarcale erano associati e cosi anche quella figura dal volto scavato e dai capelli cannuti del barbiere, boia e di mio padre, consapevole del mio disprezzo nei suoi confronti per quell’imposizione e ciò nonostante freddo esecutore rituale su una poltrona da barbiere improvvisata con dei cuscini su una sedia in una stanza da letto di casa. Per arrotondare i magri guadagni di un’attività che da li a poco, negli anni 70’, sarebbe stata chiusa non poteva permettersi molti scrupoli di coscienza!
Comunque sia quel taglio di capelli sia quel viaggio erano vissuti come imposizione intollerabile, sedimento di quella cultura meridionale e di rispetto per le famiglie, incomprensibili e soprattutto inaccettabili per un ragazzo di dieci anni, strappato agli amici che non voleva lasciare, neanche per pochi giorni…
Gli occhi straniati del ragazzo e lo sguardo del barbiere diventano il punctum della scena e trasfigurano il volto più giovane del barbiere e con i capelli scuri, riescono a trasportarla nel tempo indietro di 40 anni annullando qualsiasi discrepanza con il ricordo, con i capelli bianchi, con il volto e le rughe più scavate…
C’è qualcosa che rompe il codice metafisico e diventa realtà di carne e tempo, un momento di tragica normalità che mi richiama qualche foto di Chindy Sherman, di un realismo che forse impropriamente può essere etichettato come post moderno. Anche solo per un attimo l’orizzonte metafisico sembra rompersi.
D’altronde la sagoma metallica mette in primo piano una parte del quadro, proprio il ragazzo e il barbiere mentre li taglia i capelli, tenta di dargli realtà tridimensionale, sulla tela rimangono oggetti dello spirito, simboli che non mi sforzo neanche di interpretare, per farlo bisognerebbe utilizzare un codice che non ho ancora la capacità di comprendere. Se cerco di fare mente locale, riesco a ricordare solo un cuore separato
dagli altri oggetti che neanche ricordo. Forse non li ho neppure osservati attentamente perché coperti dalla sagoma e perché non ho avuto la forza di spostarmi di mezzo metro per andare oltre, bloccato da quelli sguardi, del ragazzo e del barbiere. Se dovessi ritenere affidabile la fenomenologia della mia percezione dovrei dire che i codici in gioco sarebbero molteplici, non uno soltanto ed è questo che ha prodotto una sorta di vertigine di senso che mi ha catturato; ma questo è un punto di vista di un profano d’arte che ha solo la capacità di riflettere su ciò che vede e pensa e che ritiene che una vertigine di senso sia il segno di un movimento interiore, di uno smottamento nella mente di un osservatore e che questo sia un piccolo miracolo. Mi viene da pensare alla dedica che ti scrisse in occasione della mostra di Cassano. Non scrissi praticamente nulla su ciò che avevo appena visto, sospendevo parole che sapevo avrei detto un giorno, ma che avevano bisogno di qualche altro indizio per essere formulate con maggiore cognizione. Ovviamente senza nessuna voglia ne presunzione di capire o etichettare un autore ma solo di capire cosa le tue opere stavano provocando in me. Con una sincera frase di circostanza ti ringrazio di avermi invitato a visitare la mostra di Otranto e di avermi provocato “smottamenti”.

Cordialmente
Sergio, il tuo vicino di casa.

Il Quinto Stato

Il Quinto stato di Beppe Labianca è un altro di quei casi in cui l’immagine parla con voce più nitida, spesso urla più forte e persino anticipa la parola scritta- soprattutto quelle riflessioni colte e meno colte che, cercando di comprendere la realtà e di spiegarla ad altri si avvolgono in spirali o/e si inseguono ma muovendosi sempre un po’ in ritardo rispetto al suo fluire avvolte vertiginoso o trascurando molte sue sfumature. Il richiamo al dipinto del quarto stato di Pellizza da Volpedo è evidente, ad una fotografia di un pezzo di società scattata oltre cento anni prima. Non si può affiancarle e osservarle insieme. Non ne sono state scattate molte oltre nel mezzo e sulle copertine dei numerosi libri di storia per le scuole o di quelli che cercano di ritrarre un quadro sociale della contemporaneità- che è fatta dei lavoratori precari, o degli “atipici”, dei migranti e anche delle donne- si utilizza ancora la famosa immagine del quarto, che rappresenta ben altro, un’altra storia.
Perché il QUINTO STATO è irrappresentabile, non lo si disegna non lo si colora perché non è un
corpo sociale, o se lo è … è un corpo ferito o mutilato, oppure è un corpo ammassato. Al massimo lo si rappresenta con dei numeri, quello delle donne violentate o uccise ogni anno, dei lavoratori licenziati, dei morti in mare tentando di attraversarlo. Di migranti sembrano i corpi di Labianca, che non soltanto indefinibili, sono anche irrappresentabili, perché non se ne riesce a dare una rappresentanza che conti attraverso gli organismi politici o sindacali. Sono indefinibili e
irrappresentabili anche perché innumerabili, masse liquide alle quali solo stime approssimative cercano di dare una qualche consistenza, e perché sfuggono a qualsiasi politica del lavoro, di welfare o di controllo, mettendo sotto scacco qualsiasi previsione.
In effetti la comparazione con Pellizza da Volpedo non dovrebbe essere fatta con una singola immagine ma con una sequenza di immagini considerando le sue opere che, in un arco di 10 anni, anticiparono Il Quarto Stato come se questo fosse la versione finale di una serie di inquadrature approssimative, di tentativi instabili (ci si riferisce ad Ambasciatori della Fame, 1991,1992-94; a Piazza Malaspina a Volpedo, 1992; a Fiumana 1995-96). Se sfogliassimo queste immagini in sequenza rapida, come un libretto animato, osserveremmo la massa dei braccianti prima costretta in una stretta via sullo sfondo dilatarsi sulla piazza a formare una falange compatta, la donna con bambino addossata ad un muro sullo sfondo farsi avanti e raggiungere le altre due figure maschili che si muovono in primo piano come avanguardia, vedremmo ancora lo sfocarsi dei riferimenti spaziali, delle case, dei monti, fino ad inquadrare soltanto la marcia decisa del corpo dei lavoratori che occupano tutta la scena. Non è solo una serie di immagini scattate che di volta in volta riducono lo sfondo e mettono in primo piano la massa vivente e palpitante ma diventa anche un piccolo film che ci fa assistere alla trasformazione della fame in fierezza, della mortificazione in fiducia, della rivendicazione in pensiero politico, della somma di bisogni individuali in coscienza
collettiva, di una “fiumana” costretta tra argini angusti in un’ansa se non proprio in una esondazione. In effetti un film con tanto di casting e di comparse pagate tre lire al giorno, perché allora si aveva bisogno anche di quelle. La sequenza utilizza risoluzioni sempre più alte fino a riconoscere i visi i protagonisti, e darvi anche un nome. Proprio lì davanti una figura femminile che ha le sembianze della stessa moglie del pittore. Teresa (Bidone), con il piccolo Luigi in braccio, di fianco Giovanni (Zarri) detto “Gioanon”, muratore, e ancora più in là Giacomo (Bidone) un
falegname, e qualche passo dietro di loro il più visibile è Luigi (Dolcini) che parla gesticolando
vistosamente, con le braccia aperte, lui fa il contadino. E poi gli altri. Comparse conosciute scelte e vestite da Pellizza, ma anche storie vere.

Ora mi trovo davanti al Quinto stato, ad un altro scenario, in un altro tempo, oltre cento anni sono
passati. C’è sempre una donna davanti, di bambini ne ha due, uno ancora in braccio, il terzo non è qui con lei. E’ Eritrea e da poco le è stata assegnata un’abitazione popolare nel quartiere San Paolo, era in attesa da tempo, sono passati diversi anni da quando ha fatto domanda per averne una. Ora è scesa per strada per cercare di non ascoltare e proteste di tutti quelli che non vogliono che sia assegnata una casa popolare perché straniera, e, come tale, usurpatrice di un diritto che sarebbe toccato-a sentir loro- a degli italiani. Lo fa in silenzio, con gli occhi socchiusi. Al suo fianco un uomo che non conosce e che neanche guarda, è tunisino, è stato per oltre un anno come occupante abusivo insieme ad altri duecento nel ex convento di Santa Chiara prima che se ne decidesse lo sgombero. Ora sta raggiungendo la sua nuova sede di fortuna che a lui e agli altri è stata trovata in un quartiere che non li vuole perché potrebbero essere una minaccia per i bambini dell’asilo attiguo. Cammina con la mente ai suoi piccoli lasciati con la madre in Tunisia. Dietro c’è anche Pietro, un italiano, che per qualche mese ha vissuto nello stesso convento, senza casa perché quella nella quale viveva ha dovuto lasciarla ai suoi figli e a sua moglie, dalla quale si era separato. Degli altri non conosciamo il nome, non sono gli “invisibili” dell’ultimo piano del nuovo pronto soccorso, gli abitanti degli interstizi della città, tra le scale dei vani vuoti e dimenticati, dove hanno dormito, steso i panni lavati ad asciugare, cucinato e mangiato, per mesi, qualche piano più alto dei via vai senza sosta dei triage. Ora dopo averli visti camminare insieme non sappiamo neanche dove siano. Non l’hanno detto a nessuno e nessuno per la verità glielo ha chiesto.
Frammenti di cielo stellato e notturno sui loro corpi, come squarci di speranza. Qualcuno infatti
giura di averli visti volare in cielo su delle scope, come nella scena finale di miracolo a Milano.

Saluti
Sergio, il tuo vicino di casa